mercoledì 25 marzo 2015

Alla ricerca del silenzio perduto

Era l'estate del 2001, ero in vacanza a Valtournenche. La notizia che una disgrazia terribile e crudele aveva colpito la famiglia di una mia compagna di scuola ci aveva raggiunti in quell'oasi di pace (e di noia), colpendoci come uno schiaffo in pieno viso.
Ricordo la mia reazione all'accaduto, la sorpresa, lo stupore, l'angoscia. La mia incapacità di proferire parola. Ero come intontita, chiusa in una bolla di incredulità. Era la prima volta che mi trovavo a dover affrontare, anche se da lontano, la morte improvvisa di qualcuno. Di qualcuno che, per molti anni ancora, non sarebbe dovuto morire. Giravo per il paese in quella bolla di silenzio. A chi chiedeva cos'avessi, mia mamma rispondeva sottovoce che era morta una bambina che conoscevo, punto. Nient'altro, perché non serve indulgere sulle disgrazie. Non servono i particolari - non ad affrontare il lutto, comunque - e non serve ricamarci sopra. Davanti al dolore si sta zitti. E basta.

Crescendo, ho imparato a rapporti con i drammi della vita. Con le lacrime, e col silenzio. Senza gridare il dolore, ma soprattutto senza ricamare sulle disgrazie altrui. Perché così mi è stato insegnato, o forse semplicemente perché questa è la mia natura. Non saprei.
Certo, è difficile. Perché in quel silenzio, devi elaborare da solo l'evento doloroso. Non puoi aggrapparti a niente. Che riguardi la tua famiglia, o 150 sconosciuti di qualunque età.

Sì, è il disastro aereo di ieri che ha ispirato questo post. Continuo a leggere ovunque teorie complottiste, farneticazioni più o meno insensate, ipotesi di ogni genere, falsità e via discorrendo. Apro Facebook un secondo e mi viene voglia di chiuderlo. Probabilmente questo è un effetto collaterale dell'invasione dei (social) media nella nostra vita. Non solo possiamo dire al mondo intero qualsiasi stronzata cosa che ci passa per la testa, no. Possiamo ritenerci assolti dal compito di elaborare da soli gli eventi dolorosi, scrivendo e dando credito a qualunque diceria.
Ed è più facile fare così, anche se in apparenza sembra il contrario. Almeno, questo è il mio pensiero. Perché non trovo altra spiegazione.

Io non ci sto. Per me, la reazione al dolore è ancora il silenzio. Dignitoso e decoroso, che è anche la risposta migliore alla disperazione di quelle famiglie riunite all'aeroporto di Barcellona.
Continuare a scrivere falsità, a inseguire dicerie, è solo un modo per evitare di esorcizzare le nostre paure. E, nel mio modo di vedere, una mancanza di rispetto nei confronti di chi, in quegli otto minuti, ha perso tutto.

EDIT: Non intendo dire che non se ne debba parlare, se questo ci fa bene. Il punto, è cosa si dice. Sempre.



1 commento:

  1. Inventare supposizioni basate sul niente, anche le più assurde, credo che sia un modo per "trovare il colpevole", per dire che è successo quel che è successo per colpa di qualcosa o di qualcuno di specifico, così da poterlo demonizzare. E, trovando un colpevole, crogiolarsi nella sicurezza che le disgrazie non avvengono, perché "è colpa di". Io non mi intendo di religione, ma forse mandare un pensiero o una preghiera silenziosi a quelle povere persone di Barcellona e anche a quelle di Dusseldorf è la cosa più confortante per loro e per noi (oltre che la cosa più distante dal gioco del complotto su un social network).

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