martedì 5 novembre 2013

Elogio di Skype

Avevo provato a usare Skype qualche anno fa, quando mi sono trasferita a Parma, per comunicare con la mia famiglia. Poi, complice (forse) la cattiva qualità della rete offerta dal convitto, l'avevo liquidato come uno strumento inutile. Si passava il tempo a strillare: "mi vedi?mi senti? Oh cazzo, ti vedo ma non ti sento", e altre amenità del genere, così l'avevo archiviato.
Adesso, invece, che l'uomo che amo vive lontano, l'ho rivalutato. In fondo, se c'è una buona connessione funziona abbastanza bene; certo, a volte l'altro sembra un puzzle di pixels (di qui le battute..."ti vedo poco nitido stasera, amore"...), o una macchia sullo schermo, ma è sempre meglio di niente.
Prima che qualche folle e accanito detrattore della modernità mi dica che durante la guerra i nostri bisnonni si scrivevano una lettera all'anno e riuscivano a mantenere lo stesso una relazione solida, sottolineo che potrei vivere senza, certo. Non sarebbe il non potersi vedere - attraverso uno schermo, per di più - che minerebbe le basi del rapporto. E non è stata l'assenza di mezzi tecnologici a far si che cinquanta - sessant'anni fa ci si separasse di meno, ma è un'altra faccenda.

Skype, comunque, aiuta. Perché diciamolo, la nostalgia è una brutta bestia. Ci si sente proprio soli, a volte. Si ha voglia di raccontare qualcosa all'altro guardandolo in faccia. O anche solo di fargli le smorfie, di comportarci come se fosse qui. O almeno di provarci. E allora il mezzo, per quei venti / trenta minuti, allenta un po' la sofferenza, quasi annulla la distanza. Quasi. Perché non possiamo né toccarci né annusarci, e in certi momenti quell'esigenza si fa fortissima. Basta uno sguardo particolare, una smorfia, un sorriso, a far scattare il desiderio di abbracciare l'altro, e magari ci si ritrova con le braccia strette intorno a un insensibilissimo monitor.

E quando si mette giù, per un istante, arriva un tremendo senso di vuoto. Perché davvero, di colpo, mi sento sola nella stanza.

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